Lo spazio fisico è ancora rilevante?
Le città sono ancora rilevanti dopo la pandemia, e lo saranno in futuro? C'è una maggiore attenzione allo spazio fisico, lavorativo o personale che sia? Gli spazi stanno cambiando il loro senso?
Nonostante le dinamiche post-pandemiche, le città sono rimaste nodi rilevanti per l’innovazione e la crescita
I cittadini e i dipendenti si stanno trasformando sempre più in consumatori di spazi urbani e lavorativi, e quindi clienti di città e organizzazioni
Il multiscopo e l’ibridazione degli spazi può essere un trend in grado di trasformare spazi activity-based in hub dove si generano interazioni di natura diversa dal lavoro
Lo spazio fisico come tema nuovamente al centro del dibattito
Dimensioni urbane, ChatGPT4.o
Abbiamo sempre dato lo spazio fisico un po’ per scontato: erano i luoghi di passaggio, o gli uffici in cui andavamo, o le case che abitavamo. Complice forse la pandemia quattro anni fa, l’ibrido pervasivo dei nostri lavori (ora comunque in calo1), la breve bolla del metaverso, le relazioni social virtuali non abbastanza appaganti (forse), ma gli spazi fisici stanno acquisendo - opinione mia - una nuova rilevanza nei pensieri e nei bisogni che emergono dalla società.
Non è solo questo: secondo la World Bank2, oggi il 56% della popolazione vive in città, ed entro il 2050 questo dato raggiungerà il 70%. Inoltre, 80% del PIL globale è generato in aree urbane. In breve: gli spazi fisici aggregatori hanno, e, probabilmente, avranno sempre, un ruolo da protagonista nella vita economica e sociale degli esseri umani.
Volevo quindi parlare di spazi fisici, di evoluzione di spazi lavorativi e, in generale, di rapporto tra spazi e persone: per questa ragione ho intervistato Chiara Tagliaro3, ricercatrice e consulente in ambito Workplace Management e Corporate Real Estate presso il Politecnico di Milano.
Partirei da un concetto sviluppato tra il 2020 e 2021, durante e subito dopo la pandemia, in cui si è cominciato a parlare di lasciare le grandi città per i suburbs negli Stati Uniti, o per il southworking in Italia. Pensi che, nonostante tutto, le città abbiano mantenuto, e manterranno in futuro, un ruolo fondamentale nell'economia e nella società o c'è stato un reale spostamento che potrebbe avere conseguenze nel medio-lungo termine?
Collaboro molto con i colleghi del Politecnico che si occupano di geografia ed economia urbana. Dalle loro rilevazioni si nota che alcuni movimenti sono effettivamente avvenuti durante il Covid: in particolare negli Stati Uniti c'è stato uno spostamento significativo dalle grandi metropoli ad aree periferiche o città di seconda fascia. In Italia non è un fenomeno confermato, o almeno non è così marcato, e mi aspetto che si sviluppi, eventualmente, sulla scia dei rincari importanti delle grandi città metropolitane (è un fenomeno che stiamo cercando di studiare a Milano).
Va detto, però, che le città e la geografia italiane, con la loro struttura compatta e le distanze relativamente brevi, offrono la possibilità di gestire con più facilità spostamenti tra città più grandi e secondarie, senza mai realmente allontanarsi troppo, cosa che negli Stati Uniti invece è ovviamente molto più complesso.
In breve, sicuramente è stato utile fantasticare su un trasferimento massivo in luoghi ameni della campagna, ma i dati non hanno confermato il trend, e, in generale, non è venuto meno il ruolo di aggregatori di reti e intelligenze che le città hanno da sempre assunto.
Le persone comunque necessitano di un contatto fisico, di scambi, di incontri…
L’altro giorno ero in una conferenza dedicata all’impatto di tecnologie quali AI, Virtual Reality, Augmented Reality, e, in generale, Extended Reality, e si discuteva di come queste potessero avere un impatto sui rapporti umani, in primis sul lavoro ovviamente, ma in generale sulla localizzazione delle persone rispetto alle proprie necessità. Per dirti di quali evoluzioni si parlava, ci facevano vedere applicazioni che simulano l’esperienza tattile, la presenza fisica dell'oggetto. Detto questo, per quanto si possa simulare un’interazione fisica, non credo che questo possa avere un impatto decisivo e di lungo termine sugli equilibri geografici.
Alla vostra recente conferenza sulla progettazione inclusiva degli spazi4 si è parlato anche delle città in senso più ampio e non solo di uffici e real estate. Secondo te, anche a seguito di quanto ci siamo detti prima, c’è un percepito cambio di domanda dei cittadini nei confronti delle proprie città nel rivedere e rendere gli spazi più inclusivi, qualsiasi cosa voglia dire?
Io credo che il concetto di inclusione e diversità sia molto abusato oggi e che ci sia spesso poca consapevolezza nel discuterlo: quali categorie di diversità dobbiamo considerare, quali sono gli strumenti per rendere effettivamente inclusivi spazi, ambienti, materiali o immateriali?
Detto questo, sì, c’è un cambio di domanda, e in particolare si nota un aumento di sensibilità dei cittadini nei confronti delle tematiche della gestione degli spazi urbani: da quanto dichiarano si riscontra un crescente desiderio di usare biciclette o camminare piuttosto che fare affidamento sull'automobile - questa tendenza è particolarmente evidente tra le generazioni più giovani, che chiedono una qualità urbana superiore e più accessibile.
Per chiudere, secondo me c’è anche un tema di servizi locali rispetto al luogo dove si risiede, servizi che magari prima avevano rilevanza inferiore data la distanza da percorrere ogni giorno per andare in ufficio. E questo è un po’ il motivo per cui penso che gli spazi di coworking, o comunque spazi collaborativi con diverse formule, abbiano un futuro positivo, proprio perché riescono a fornire una serie di servizi in maniera integrata e centralizzata, che vanno a supporto del cosiddetto near working.
In questi anni, uno dei temi che ho incontrato più spesso nell’ambito del ritorno in ufficio, era il disgregarsi delle connessioni propriamente umane. Ora, al di là del chi può andare o non andare in ufficio, quello che effettivamente emerge è che non andare in ufficio ha sicuramente un impatto, minore quando il remote working era pervasivo, ma sempre più rilevante in questo momento di ritorno: impatti diretti su carriera, salari, un po’ perché qualcuno rinuncia a parte del salario per poter stare a casa, ma anche per tutta una serie di opportunità mancate, bias di prossimità, …
In una battuta possiamo dirci: lontano dagli occhi, lontano dal cuore [ride, ndr]. Ogni proverbio viene, però, da un fondo di verità e, in questo caso, questa verità si ritrova negli ampi studi svolti da Thomas J. Allen negli anni Settanta (e da tantissimi altri ricercatori americani). Allen5 studiò come le distanze interpersonali negli uffici (quindi neanche in situazione di remote-working) hanno un impatto sostanziale sulle interazioni; non parliamo di distanze enormi, ma anche otto, quindici metri tra i desk hanno un impatto molto significativo sulle comunicazioni.
È vero quindi che le persone, se non si incontrano fisicamente, si “dimenticano” dell'altro, o comunque subentra un altro tipo di interazione e di scambio che in qualche modo è meno empatico e meno casuale. Oggi non stiamo scoprendo l'acqua calda: l’impatto della distanza sulle relazioni è un concetto che già c'è, quindi illuderci che il lavoro si possa fare anche virtualmente, anche a distanza, come se nulla cambiasse, è un po’ una visione errata. E’ un altro tipo di lavoro. E qui rientra anche un po’ il tema dell’inclusione: se ci sono persone che hanno un tipo di contratto remote-only, queste avranno un trattamento diverso? Bisogna in qualche modo mettere dei paletti tali per cui la valutazione sia differente a seconda della tipologia di contratto e lavoro? Sono ovviamente domande aperte.
Come per le città, il ritorno in ufficio ha portato con sé nuove domande e necessità espresse o stiamo tornando a una old normality? Il tema è: si stanno mettendo in dubbio modelli di ufficio che si dava per scontato che portassero innovazione, creatività? Ad esempio, nel periodo pre-Covid si collegava il tema dell'innovazione alle formule Open Space delle startup, di Google, e simili; ora, però, emergono anche altri bisogni: la privacy, i rumori, la luce, tutte tematiche affrontate nel corso della vostra conferenza.
Sì, sicuramente sì: credo che nel tempo si sia creata un'attitudine tipicamente legata al consumatore, e quindi scelte più consapevoli, anche in ambiti estranei al mero consumo. Mi spiego. Il consumatore di oggi è una persona mediamente informata sul prodotto che sta usufruendo, abituata a fare commenti, vede ogni cosa come un'esperienza e quindi la deve valutare, deve condividere le valutazioni degli altri,…: in breve, si tratta di dinamiche pervasive che applichi sempre più anche in ambiti estranei al consumo.
Diventa quindi interessante l’idea di essere clienti del proprio spazio di lavoro, della necessità di ingaggio ed esperienza offerti dalla propria azienda, dinamica che vede i dipendenti come propri clienti.
Questa logica è un po’ tipica degli spazi di coworking, dove diventa evidente questo tipo di rapporto: tu vai in un co-working e non occupi un ufficio qualsiasi, ma un ufficio che in qualche modo ti deve attrarre, perché altrimenti scegli un altro spazio. Subentra quindi una logica commerciale: non c'è più un'affiliazione diretta tra l'occupante e lo spazio, e si generano così temi di attrazione, fidelizzazione, riverberandosi poi negli spazi aziendali.
E quali sono i trend maggiori, quali le domande che stanno emergendo più prepotentemente?
Direi molteplicità di spazi, o varietà di spazi, cosa che negli uffici tradizionali non si è ancora sviluppata. Le organizzazioni, tradizionalmente, nel design dei propri spazi hanno applicato logiche di Activity Based Working, tali per cui si entra in un ufficio dove si hanno una serie di spazi diversi che ospitano diversi tipi di attività: hai diverse sale riunione, hai varie postazioni per il lavoro collaborativo, hai dei desk…
A me piacerebbe però capire qual è il next step dell’Activity Based Working, cioé come rendere gli spazi dell’ufficio slegati dalla sola logica dell’attività che viene svolta: immagino zone verdi, o di contatto con l’esterno, collaborazione prevalentemente informale; insomma, nella varietà bisogna tenere conto di nuovi spazi.
Purtroppo siamo anche in un momento che segue un periodo di voli pindarici in cui si sono lanciate le organizzazioni (volontà di studiare nuovi spazi, di investire), poi la crisi economica, e ora tutti si sono fermati per provare a capire meglio gli obiettivi e gli investimenti più sicuri, con un atteggiamento molto cauto sulle sperimentazioni.
Tra i modelli che stavano studiando, diciamo i voli pindarici, cosa ti aveva colpito di più?
Io sto scrivendo un paper su questo tema: un paio di anni fa, un’organizzazione - di cui non posso rivelare il nome - stava progettando una revisione radicale dell’ufficio, con uno sbilanciamento fortissimo tra postazioni collaborative e postazioni di lavoro propriamente dette (in una porzione di circa 90% versus 10%): di fatto si immaginavano uno spazio di lavoro che sarebbe diventato totalmente aperto, ma nel senso di totalmente strutturato per incontrarsi e fare riunioni, chiacchiere informali e simili.
Da qui però mi interrogo, e mi sto confrontando con un’amica e collega filosofa, rispetto alla libertà di scelta degli individui. Cioè: noi ci stiamo dicendo che il lavoro flessibile è uno strumento per aumentare la libertà personale e rimettere al lavoratore la libertà di scegliere quotidianamente dove lavorare. Ma qual è il problema? Se io creo uffici che ospitano solo il lavoro di collaborazione, in realtà l’individuo non ha nessuna libertà di scelta: deve venire in ufficio quando deve collaborare, e quando non deve, può restare a casa. Quindi non c’è una vera libertà di scelta; anzi, la stiamo riducendo.
Fammi dire però che, dati alla mano, la creatività e l’innovazione aziendale può ridursi gravemente proprio a causa del fatto che le persone stanno lontane, e quindi la libertà di scelta dell’individuo si va a scontrare con la necessità che l’azienda faccia profitto non solo sul lavoro operativo, ma anche sull’innovazione che i singoli dipendenti possono portare. Mi chiedo quindi se questa libertà possa essere mitigata dall'offerta, magari più ampia e varia, di attività e servizi offerti dagli spazi dell’ufficio: è un po’ quanto dicevi della molteplicità degli spazi, e di quello che volevo approfondire, ovvero il multiscopo che uno spazio può assumere, nel senso di dare agli spazi non solo un obiettivo diretto al profitto e al lavoro in sé, ma qualcosa di più.
Quindi, vero che non c’è libertà laddove una persona viene obbligata, più o meno esplicitamente, a usufruire degli spazi e dei servizi offerti dai propri uffici, ma mi chiedo se questo limite possa essere mitigato da un’offerta diversa; non solo vieni qui a collaborare ma per accedere a molto altro, dalla palestra ad attività ricreative e culturali: una libreria, un asilo, un luogo dove si può fare un corso di musica,…
Sono d'accordo con te, e credo che questa sia la chiave, ovvero l’ibridazione delle funzioni degli spazi. Ne abbiamo parlato ampiamente anche quest'anno nel mio corso del Politecnico, e cioè: l'ibridazione significa avere la possibilità di svolgere in uno spazio compatto una serie di attività differenti rispetto al semplice lavorare, e dare così valore a manufatti edilizi che altrimenti resterebbero molto vuoti e incapaci di generarlo: se utilizzi il tuo spazio non solo come ufficio, ma lo rendi aperto a ospitare altri tipi di attività, magari alcune a scopo di lucro, o che creano valore in altri modi, allora si può dare effettivamente vita a prospettive diverse per i propri spazi.
Certamente, ragionando così dobbiamo poi considerare eventuali problemi amministrativi, di normative, di security, privacy: nel mondo delle idee magari si sta andando in quella direzione, ma poi per arrivarci ci sono una serie di step pratici da affrontare, molto concreti, che non sono immediatamente risolvibili.
Quindi il multiscopo dello spazio, l’ibridazione diciamo, potrebbe essere una prospettiva?
Sì, questa modalità potrebbe essere quella che renderà gli spazi di lavoro più attrattivi e inclusivi per le persone, facendo degli spazi di lavoro luoghi veramente interessanti in cui possano accadere interazioni culturali, generazionali e sociali.
Il Luiss Hub, dietro Corso Como, segue questi principi: l'università Luiss ha deciso di aprirlo in formato hub ospitando master universitari, attività di accelerazione per startup, spazi per associazioni (ad esempio associazioni che si occupano di bambini con disabilità o di persone che collaborano con le scuole per avviarne la digitalizzazione), stampa3D, eventi di vario genere. E’ uno spazio molto vivace in cui succedono cose e dove si creano opportunità d’incontro per diverse categorie di persone in modalità un po’ inconsuete.
Ti seguo su tutte le le dimensioni che hai citato. Mi chiedo: è efficiente per un’azienda creare uno spazio di questo tipo?
Io penso di sì. In primis perché lo spazio di un ufficio è un ambiente molto energivoro con costi molto elevati, e oggi è anche molto vuoto. Quindi, a meno che le organizzazioni non vogliano forzare le proprie persone a tornare in azienda per avere degli spazi che effettivamente siano pieni, si dovrà comunque cedere parte dei metri quadri per fare altre attività, eventualmente con profitti economici. Il rendimento, tra l’altro, può anche non essere unicamente economico, ma sociale, in logica di give back.
Ultima domanda. La mia impressione è che si stia parlando maggiormente di spazi, sia da vivere, e quindi urbani, ma anche di lavoro, e quindi uffici, coworking,…: è una conversazione che, rispetto a qualche anno fa, è effettivamente cresciuta o è una bolla in cui sono finito?
Sì, sicuramente. Una cosa che dimostra una maggiore attenzione verso gli spazi è l’iniziativa New European Bauhaus6, lanciata dall’Unione Europea. Di fatto è un’iniziativa che riprendere alcuni dei principi del Bauhaus, movimento degli inizi del Novecento, che all’epoca si occupava di prospettive relative all’industrializzazione, e che oggi ci riporta al centro del dibattito l’ambiente costruito e la dimensione fisica degli spazi. Per farti qualche esempio, alcuni fondi europei stanno ponendo più attenzione a temi legati all'ambiente, costruito non soltanto sull’idea della sostenibilità ambientale, ma anche, ad esempio, su temi d’inclusione, bellezza (il fatto di creare spazi belli, piacevoli), e quindi sì, c’è effettivamente una maggiore attenzione a questi aspetti.
The New European Bauhaus rappresentato da ChatGPT4.o in versione espressionista
Il parallelismo con il Bauhaus di inizio Novecento è interessante: allora era un po’ una risposta all'industrializzazione, oggi magari una risposta agli spazi virtuali che stiamo vivendo e che, ovviamente, non ci danno indietro quello che possiamo fruire da uno spazio, come dicevi tu, bello, piacevole, fisico?
Non ne sono certa, ma può essere che lo shift esperienziale che abbiamo vissuto a livello cognitivo ci abbia portato a porci qualche domanda: quando si sperimenta un’esperienza diversa dal solito, è normale guardarsi indietro e porsi delle domande; può essere che abbiamo iniziato a guardare indietro verso lo spazio fisico proprio oggi, quando tante esperienze avvengono, di fatto, in un mondo virtuale.
Per dati e prospettive, cfr. Con il declino del lavoro ibrido, le aziende devono ripensare gli spazi?, LINK
Inclusion and Well-being through space design, New European Bauhaus Festival, 15 aprile 2024