Possiamo ancora permetterci di essere una specie carnivora?
La carne è un alimento inclusivo? L'allevamento e l'agricoltura intensivi sono efficienti a livello sistemico? Possiamo fare a meno delle proteine animali?
Capitalismo Carnivoro1 è una bellissima scoperta a firma Francesca Grazioli, Ricercatrice e Scrittrice presso Bioversity International2.
La copertina del libro (copyright Il Saggiatore)
Il tema principale non è solo l’impatto del consumo di carne nel mondo, su cui credo siano tutti concordi nel vedere esternalità negative per l’ambiente (inquinamento e consumo di suolo soprattutto), ma l’analisi di quanto viene impattato su tutto l’ecosistema dei sistemi produttivi alimentari, dai lavoratori alle aziende, alla piazza politica pubblica.
Se il trend attuale si conferma, entro il 2050 saremo 9,8 miliardi di persone nel mondo3, con ovvi impatti sulla produzione e il consumo di cibo. L’altro grande trend è l’arricchimento (penso a Cina e India), e quindi la crescita di un consumo di cibo diverso dalla tradizione, che anche da noi a inizio Novecento era definito cibo da ricchi: la carne. Carne che, oggi, non è un lusso, perché l’offerta è aumentata abbastanza da poter permetterne il consumo a (quasi) tutti in maniera accessibile.
Dobbiamo quindi riflettere se quel consumo sia oggi un diritto di chi prima non poteva permetterselo, o se sia divenuto un danno tale da costringerci a cambiare le nostre abitudini. Ne parlo con l'autrice in questa conversazione.
Ma quindi, possiamo ancora permetterci di essere una specie carnivora?
No, sotto qualsiasi punto di vista: l'attuale sistema di produzione della carne non è sostenibile dal punto di vista ambientale, dal punto di vista economico, di sicurezza alimentare, da un punto di vista etico, sia per quelle che sono le condizioni di chi lavora all'interno dell'industria della carne, sia per gli animali stessi.
Vorrei partire da qui. Ho notato che il libro si stratifica su diversi livelli di lettura: c’è un livello di etica ambientale (impatto sulla biosfera e la biodiversità), c’è un livello di etica del lavoro (e penso ai lavoratori dei mattatoi), c’è un livello di impoverimento delle economie locale e crescita delle disuguaglianze, c’è un livello di etica animalista (in termini di trattamento degli animali). Qual è il punto di partenza del tuo libro? Da dove hai iniziato la tua ricerca?
Sono partita dal punto di vista ambientale. Per il mio lavoro, io faccio ricerca su tematiche legate alla sicurezza alimentare e al cambiamento climatico, alla biodiversità e il cibo, che è sempre stata una mia grande passione. Partendo da lì, si scopre che l'industria agroalimentare è una delle prime voci a causare molti dei disastri ambientali che stiamo vedendo e vivendo in prima persona.
Questo mi ha incuriosito: possibile che sia il cibo a provocare tutto questo? Se torniamo indietro di due o tre anni, ricordi cosa si diceva? Si parlava principalmente di inquinamento dovuto ai trasporti, al sistema di riscaldamento e via dicendo, ma l’agricoltura, che non veniva mai menzionata, è proprio una delle pistole fumanti.
Quindi sei partita dalla parte ambientale per allargarti poi agli altri livelli?
Esatto, e il collegamento è immediato. Tu oggi hai miliardi di capi di bestiame, sia per la carne, ma anche per i prodotti derivati come i latticini: e questi capi producono metano e protossido di azoto, che sono questi due fortissimi gas climalteranti. In più c'è un altro problema correlato: il 70% delle terre coltivabili sono utilizzate per l'allevamento, togliendo spazio sia alla coltivazione sia a potenziale rimboschimento.
Non ho cifre precise con me, quindi ti chiedo: ma è effettivamente diffusa questa percezione? Mi viene in mente il libro Il nostro iceberg si sta sciogliendo4, dove il protagonista fa ben fatica a far capire agli altri pinguini l’emergenza che li mette in pericolo: nelle tue ricerche, hai trovato una sensibilità che collega l’agricoltura, e l’allevamento, al tema ambientale, o è un passaggio troppo lungo? Tenendo conto anche della questione culturale sul cibo, che riprendi nel tuo libro…
Sì, c’è effettivamente un enorme ostacolo, che vale non solo per noi italiani, per cui il cibo è anche identità. Nel momento in cui devi mettere in discussione quello che mangi, o ti viene detto che quello che stai mangiando ha impatti negativi per diversi motivi, la percezione è che sia la cultura a non andare bene. Vero anche che la carne in realtà non è realmente una vera e propria tradizione: i nostri nonni, ad esempio, avevano una dieta molto più vicina a quella vegetariana, ma per il semplice fatto che non c’era tanta carne, mentre ora c’è, di fatto, un accesso democratico al suo consumo.
Sulla percezione, mi verrebbe da dirti sì, ma il campione di persone con cui mi sono relazionata io è già un campione autoselezionato, perché magari ha letto il libro o si è sempre interessato al tema. Se poi ci confrontiamo sul senso di impotenza, di non agenza, questo è un altro discorso, che è un po’ però il tema del nostro tempo: le persone che si sentono soverchiate da quel che ci accade attorno e non vedono la possibilità, singolarmente, di poter contribuire.
Mi piace il tema della democratizzazione del consumo. Prendiamo il BigMac, che vale 2.200kcal a 7€, quindi più del consumo giornaliero di una persona, non tenendo conto dello squilibrio dei valori nutrizionali. In un mondo di costi elevati, questo non è un tema? E’ un privilegio mangiare in modo equilibrato e, possibilmente, privandosi di carne?
Questo è un punto fondamentale. Il tema è: perché rinunciare alla carne che, al di là del BigMac, ha un costo sicuramente minore per raggiungere le calorie necessarie, e magari mangiare bio può costare anche fino a 3, 4 volte tanto?
Innanzitutto, lo scopo del libro non è obbligare a mangiare un determinato tipo di cibo, ma far capire che non si è obbligati a mangiare solo quel tipo di cibo.
Ad esempio, Esther Duflo, economista in ambito Development Economics, faceva l’esempio delle abitudini di consumo indiane: se al posto del riso e pollo una persona con poco reddito mangiasse porridge di miglio con un’altra bevanda (di cui ora non ricordo il nome), avrebbe un pasto completo, ben equilibrato dal punto di vista nutrizionale e, soprattutto, a costo minore.
Qual è il punto? E’ la consapevolezza. Perché io capisco che nella vita di tutti i giorni, tra il lavoro, la famiglia, magari le difficoltà economiche, diventa difficile acquistare prodotti con maggiore consapevolezza e, soprattutto, cucinarli: tra cuocere una bistecca e preparare una zuppa di legumi, i tempi sono decisamente diversi. Ma, per esempio, se al posto di un BigMac, si consumasse una pasta e fagioli, avremmo, a costo uguale (o addirittura minore), un pasto completo e valido. Però certo: richiede una cucina, una pentola con l’acqua, il gas, e non è di immediato consumo.
C’è anche una componente pubblica, che favorisca un certo tipo di consumi, che possono essere, tra l’altro, un investimento in termini di salute (con minori costi relativi).
In Italia siamo facilitati: c’è già un incentivo culturale a mangiare un certo tipo di cibo, con un certo tipo di equilibrio. Magari in altri paesi meno: ricordo una Michelle Obama che coltivava verdura nell’orto della Casa Bianca per provare a influenzare le abitudini dei cittadini americani.
Come scrivi nel libro, c’è una questione di scarico dei costi sociali e ambientali che permette di tenere bassi i costi della carne: davanti a questa affermazione, la risposta pubblica dovrebbe quindi essere la tassazione delle esternalità, che però potrebbe portare a un aumento dei costi della carne. Questo significa, come società, porsi il tema di aumentare i costi di un determinato tipo di cibo, con tutte le conseguenze del caso.
Sai che, storicamente, il costo della carne è correlato al livello dei salari? Questo significa che tenere basso il prezzo del cibo aiuta a mantenere bassi e salari minimi. Non è banale, perché la correlazione è proprio con la carne. A inizio Novecento, sul San Francisco Chronicle, erano emerse richieste dei lavoratori americani bianchi di vietare l’accesso ai loro posti di lavoro ai migranti provenienti dalla Cina e dal Sud Est Asiatico per ovvie ragioni di salario: i migranti orientali non consumavano carne, e con un costo alto del cibo e un’abitudine diffusa al suo consumo, portava a una competizione al ribasso e una generale discesa dei salari.
Su questi tema ho trovato illuminante la lettura di A Foodie’s Guide to Capitalism5 di Eric Holt-Gimenez, che ha studiato l’importanza di tenere basso il costo del cibo per poter tenere bassi i salari dei lavoratori. Tu sai, ad esempio, che dal 1980 al 2008 il prezzo del macinato per hamburger è diminuito del 53% mentre frutta e verdura sono aumentate del 45%, e solo col Covid questo trend è un po’ cambiato?
Food on Abbey Road, immagine mia, chatGPT
Lasciamo un attimo da parte il tema del salario, che resta comunque fondamentale, e parliamo di efficienza. In Energia e Civiltà6, Vaclav Smil analizza lo sviluppo delle civiltà a partire dall’efficienza nel produrre energia. Mi aveva colpito la parte iniziale, dove lui va a studiare il rapporto tra joule consumati e joule potenziali in formato carne nel cacciare mammut versus animali più piccoli (e quindi una grande caccia contro tante piccole cacce per raccogliere la stessa quantità di joule potenziali). La carne non risponde un po’ a questo tema essendo intrinsecamente più efficiente di altri cibi in termini di calorie e proprietà nutrizionali?
Sicuramente sì, ma cento anni fa. Lasciando da parte il tema di proprietà nutrizionali, su cui non sono esperta, e ragionando della sola efficienza, in un mondo dove si consumava poca carne, e dove si mangiava meno in generale, l’efficienza era sicuramente visibile. Dal punto di vista di calorie e pacchetto nutrienti, la carne è sicuramente più veloce e immediata da consumare e assorbire di tanti altri cibi, che magari richiedono tempi maggiori per la bollitura e la preparazione.
In un mondo come quello attuale, dove di fatto possiamo accedere a una cornucopia e non c’è più il cacciatore-raccoglitore, in realtà il tema dell’efficienza si ribalta. Per farti un esempio, per fare 1 caloria di salmone o pollo ti servono 4 calorie vegetali, così come l’hamburger che mangi richiede da 5 a 9 volte le stesse calorie in termini di acqua utilizzata, campi, fertilizzanti.
Ho avuto la fortuna di incontrare studiosi dell’Istituto Europeo di Oncologia a Padova che hanno realizzato Smart Food7, un sito molto interessante che crea ricette a base vegetale facili da realizzare, con lo stesso apporto calorico e nutritivo di più classici piatti di carne. Quindi, in conclusione, l’efficienza, che è un tema che facilmente potrebbe entrare nel dibattito, in realtà è stato superato nell’epoca contemporanea.
E la logistica, gli spazi? Mi spiego: un pollo occupa molto meno spazio di una quantità equivalente di calorie vegetali, e in un mondo di demografia crescente, gli spazi saranno sempre più rari e preziosi, no?
Questa è un po’ l’idea degli allevamenti intensivi: tu hai un unico capannone, migliaia di animali che in un unico luogo estremamente efficiente riesci a far crescere, alimentare, curare fino al momento della macellazione, e quindi ottimizzi l’uso dello spazio.
Il tema è valutare a livello sistemico. Se guardiamo a quel 70% di terre coltivabili dedicato alla produzione della carne, trovi non solo pascoli, ma tutte quelle coltivazioni dedite a soddisfare la produzione necessaria all’alimentazione degli animali (e quindi la soia, ad esempio), con spreco di spazi, ulteriori esternalità negative (disboscamento, utilizzo di glifosfato e altri agenti chimici estremamente dannosi) e monoculture intensive invece di forme agricole più sostenibili.
Provo a insistere: comunque il trend demografico è in aumento, e raggiungeremo presto quasi dieci miliardi di persone sul pianeta (se mai inizieremo a declinare). Come faremo, in questo scenario, a nutrire tutti con coltivazioni meno efficienti? O se si portasse a un consumo limitato di carne, come possiamo essere abbastanza efficienti per tutti?
Il sistema carnivoro, in realtà, brucia tantissime calorie. Il tema dell’efficienza, fammi dire, del singolo pollo non tiene conto dell’inefficienza a livello sistemico (se ripensiamo alla cifra citata precedentemente, e quindi il consumo di calorie per ogni caloria di hamburger prodotta…)
Posso sintetizzare dicendo che c’è talmente tanto consumo per produrre quel pezzo di carne a causa di quanto vi sta attorno che una limitazione del consumo porterebbe a liberare spazio per altre produzioni, magari meno efficienti a livello singolo ma certamente più sostenibili a livello sistemico?
Esatto, è proprio così. Poi, certo, si tratta di modelli, e bisogna poi tenere conto di una serie di aspetti, come la distribuzione, l’accesso, però in generale è così.
In fondo al libro mi ha colpito molto l’ultimo capitolo dedicato alla carne coltivata (o sintetica). Un po’ perché da una parte il nostro Ministro dell’Agricoltura ne ha addirittura vietato la ricerca su suolo patrio, un po’ perché lascia un ottimo sapore di ottimismo tecnologico, in un ambito dove la deriva luddista del ritorno alle origini è proprio dietro l’angolo. C’è un tema di costi se non vado errato, corretto? Ed è effettivamente qualcosa che può renderci ottimisti?
Sono contenta che tu abbia letto il capitolo in questa luce. In effetti, io ne ho fatto un’indagine semi-neutrale perché mi chiedevo: può essere questa una risposta futuribile a questi temi? Permettimi una battuta. Lato politico mi perplime la presa di posizione: dire che la carne sintetica rappresenta di fatto un invasore che sradica in qualche modo la nostra tradizione mi fa riflettere su cosa sia effettivamente la tradizione: il wurstel? Il tè?
Detto questo, se l’obiettivo è scardinare il sistema produttivo della carne di oggi, questa è una tecnologia che può farlo, e in generale io sono a favore di qualunque tecnologia, agricola o meno, che possa migliorare la produzione e la produttività, diminuendo, ovviamente, le esternalità negative. Come ti dicevo, per il mio lavoro io mi occupo di agricoltura, e in particolare stiamo cercando di creare più congiunzioni possibilità tra modernità, tecnologia e saperi tradizionali, perché è in quell’intreccio che si riesce veramente a creare un sistema che possa sopravvivere nel medio-lungo termine, producendo, ma in modo sostenibile.
Sulla carne coltivata è uscito un bellissimo libro di Arianna Ferrari (per l’appunto, Carne Coltivata8), che ne parla in maniera più tecnica rispetto a quello che faccio io; di certo, uno dei problemi resta il costo, che è molto elevato (ancora) per la produzione di massa. Quello che probabilmente succederà è che i prodotti inizieranno ad avere una componente di carne coltivata e una componente di proteine vegetali, con un prezzo ovviamente più basso.
Al di là del prezzo, il ragionamento sulla carne coltivata è, ovviamente, sugli impatti: in primis sullo sradicamento della sofferenza animale, che non era tra i primi punti di analisi che ho utilizzato nella scrittura del libro, ma su cui ho ragionato mano a mano che proseguivo con le mie ricerche, e, in secondo luogo, liberi spazio perché non hai più bisogno di un numero di capi direttamente proporzionale al consumo. L’altro aspetto da considerare è la competizione: non siamo in fase Covid, con lo sforzo congiunto delle imprese farmaceutiche di produrre il vaccino, ma abbiamo tante aziende che stanno facendo le loro ricerche con brevetti e processi altamente secretati, e quindi le tempistiche sono più lunghe.
Capitalismo Carnivoro, Francesca Grazioli, Il Saggiatore, 2022
Il nostro iceberg si sta sciogliendo, John Kotter, Holger Rathgeber, 2023
Anno di pubblicazione: 2017
Anno di pubblicazione: 2021
Anno di pubblicazione: 2023
Grazie, Alessio, per aver condiviso con noi questa intervista molto stimolante. In linea con quanto sostenuto dall'autrice, uno dei problemi principali é che l'industria di produzione della carne non compensa una buona parte delle esternalità negative che crea, spalmandole, di fatto, sulla collettività. Se il costo ambientale generato dagli allevamenti intensivi fosse compensato, i costi sarebbero molto più alti. Questo avviene in tantissime alte industrie: pensiamo soltanto alla plastica e al suo mancato smaltimento in molti paesi in via di sviluppo e non solo.
Per quanto riguarda i consumi, le tempistiche necessarie per cambiare completamente l'atteggiamento culturale verso la carne sono troppo lunghe. Un'espansione di larga scala dell'offerta di carne coltivata potrebbe di fatto essere la soluzione che consenta di mantenere "democratica" la carne, riducendone la maggior parte dei costi ambientali. Bisognerebbe dunque considerare di tassare la carne "ammazzata" oggi, per detassare completamente l'offerta di carne coltivata e creare incentivi per chi sviluppa tali tecnologie. Il prima possibile.